L’epoca dei tassi d’interesse a zero o addirittura negativi è finita. La principale ragione è la fiammata inflazionistica iniziata con la parziale interruzione di molti canali di approvvigionamento di materie prime e commodities tra l’Asia e l’Occidente, ed esplosa con il conflitto russo-ucraino. I prezzi a luglio sono cresciuti dell’8,5% negli Stati Uniti a causa dell’incremento del 32,9% dei costi beni energetici. Cifre molto simili interessano l’Italia: l’inflazione, sempre a luglio, ha toccato l’8,4% e (secondo le stime preliminari dell’Istat) il 9,1% in agosto (Indice IPCA). Ancora peggio va in media nell’Eurozona, con un carovita dell’8,9% a luglio e un aumento dei soli prezzi del cibo dell’11,5%.
Era da metà degli anni ’80 che non si raggiungevano tali livelli, e coloro che hanno meno di 50 anni non sono abituati a incrementi così veloci del costo della vita. Per combattere sia l’allarme sociale che, soprattutto, l’impatto economico di un’inflazione così alta, la classica contromisura delle Banche Centrali è il rialzo dei tassi di interesse. Il tasso di riferimento della Bce o della Fed è quello a cui la Banca Centrale concede prestiti agli Istituti bancari sul territorio di sua competenza e rappresenta, quindi, un importante parametro per i tassi che, a loro volta, le banche imporranno ai propri debitori.
La bassa crescita e le diverse crisi economiche che hanno interessato l’Europa tra il 2008 e il 2020, nonché l’inflazione quasi inesistente, avevano portato la Bce a portare il tasso di riferimento a scendere gradualmente dal 4,25% del luglio 2007 fino allo 0 del marzo 2016 per stimolare gli investimenti rendendo il costo del denaro di fatto inesistente.
I tassi del resto del mondo, le fluttuazioni della Fed
La Fed ha seguito una strategia simile, ma non identica, e, soprattutto, in tempi diversi. Sull’onda della crisi dei subprime il suo tasso di riferimento è sceso allo 0,25% già nel dicembre 2008, quando quello europeo era ancora al 2,5%, per poi risalire dal dicembre 2015, superando il corrispettivo della Bce, allora sceso a solo 0,05%. La ripresa economica americana, del resto, si era rivelata ben più robusta di quella europea.
All’arrivo del Covid il tasso di riferimento europeo era già a zero, quello americano a 1,5%, ed è stato velocemente portato a 0,25% nel marzo 2020. Il mondo in fondo sembrava essersi fermato, e con esso i prezzi e gli investimenti. Non è durato molto. La già citata impennata dei prezzi ha fatto pensare ai governatori di gran parte delle Banche Centrali, in primis la Bce e la Fed, che si dovesse “raffreddare” l’economia, rendendo più costoso prendere denaro a prestito, così da limitare la circolazione della moneta e ridurre, appunto, la corsa dei prezzi.
È una mossa controversa, visto che siamo di fronte alla cosiddetta inflazione da offerta, causata dalla scarsità di beni di primaria importanza, come le materie prime energetiche, e non da un aumento della domanda, come accaduto spesso in passato. Il rischio è di peggiorare una recessione che appare sempre più vicina.
Tuttavia, la Fed ha cominciato a innalzare il tasso di riferimento già nel marzo di quest’anno di 25 punti base, ovvero dello 0,25%. A maggio è arrivato un altro incremento dello 0,5%, cui ne sono seguiti due dello 0,75% a giugno e luglio. Oggi, quindi, i tassi americani sono pari al 2,5%. La Bce, invece, ha atteso luglio per decidere un rialzo di mezzo punto. A settembre ve ne è stato un altro dello 0,75%, che ha portato il tasso di riferimento europeo all’1,25%.
Cosa succede a quello delle altre economie? Nel Regno Unito, dopo un aumento del 0,5%, il tasso è dell’1,75%, mentre sale, e di molto, nei Paesi dell’Est senza euro. Arriva al 6,75% in Polonia e all’11,75% in Ungheria. In Turchia è del 13%, ma la crisi della lira turca da tempo aveva costretto la Banca Centrale turca a tenerlo alto. I tassi sono quasi ovunque maggiori che nell’eurozona: dell’8% in Russia, del 5,4% in India, del 3,65% in Cina.
I record, tuttavia, li troviamo in Sudamerica. L’inflazione endemica che colpisce alcuni Paesi costringe a tassi esorbitanti, che giungono al 57,63% in Venezuela e addirittura al 69,5% in Argentina, dove sono aumentati del 9,5% in una volta in agosto. Il carovita, del resto, ha toccato il 70% quest’estate.
Sul versante opposto vi sono solo Giappone e Svizzera. Nel primo i prezzi stanno salendo meno che altrove e, anzi, vi è stata una deflazione durata decenni, così il tasso di riferimento è addirittura negativo dal gennaio 2016, a -0,1%. Nel secondo è invece dello -0,25%, il più basso al mondo, nonostante un aumento dello 0,5% a giugno. La Banca Centrale Svizzera è abbastanza sicura della forza della propria moneta e della propria economia da potersi permettere di tenere i tassi a questo livello eccezionale. È una sicurezza che la Bce non può avere.