Lo stato di salute delle piccole e medie imprese (Pmi) italiane è sempre stato la cartina di tornasole del benessere economico del Paese. I loro numeri, del resto, le rendono la spina dorsale del sistema produttivo: le 160mila aziende con un fatturato tra i 2 e i 50 milioni di fatturato generavano, prima della pandemia, 1.054 miliardi di ricavi e 247 miliardi di valore aggiunto dando lavoro a 4,5 milioni di persone.
La buona notizia è che gli ultimi dati di Cerved dipingono un ritratto confortante delle loro condizioni. Certificano, infatti, che nel tempo le Pmi sono riuscite a crescere quantitativamente e qualitativamente e come ciò le abbia aiutate a resistere alla tempesta del Covid.
Dal 2013 in poi, dopo la doppia crisi, quella dei subprime e dei debiti sovrani, i loro fatturati hanno ricominciato ad aumentare, superando nel 2018 il livello del 2007, l’anno precedente alle due recessioni. Anche il loro numero è risalito mettendo a segno tassi di crescita sostenuti in particolare tra il 2015 e il 2018.
Il dato più importante, tuttavia, è quello rappresentato dalla robustezza delle Pmi. La proporzione di quelle in una situazione di rischio finanziario è nettamente diminuita tra il 2012 e il 2019, passando dal 22,7% al 10,2%. Quelle vulnerabili sono scese dal 38% al 30,2%, mentre le piccole e medie imprese in una condizione di solvibilità sono cresciute, secondo Cerved, dal 39,4% al 59,5%.
Particolare rilevante: nel 2019 le Pmi italiane erano più robuste anche rispetto al 2007, ovvero al periodo che aveva preceduto la Grande Recessione. Significa che è stato messo in atto un risanamento strutturale che ha risolto parte delle debolezze che le Pmi italiane si portavano dietro da diverso tempo.
Non a caso il rapporto tra i debiti finanziari e il capitale netto, un classico indicatore della solidità di un’azienda, è sceso in modo costante, passando dal 115,5% del 2007 al 66,9% del 2019.
Queste performance sono state indiscutibilmente utili per assorbire meglio l’impatto della crisi pandemica.
I mancati pagamenti delle Pmi nel 2021 sono tornati ai livelli del 2019
La recessione del 2020 ha ridotto il fatturato delle Pmi dell’8,8%. Si tratta di un calo in linea con quello subìto dal Prodotto Interno Lordo.
Anche il numero di piccole e medie aziende è diminuito, del 3,9%, ed è passato da 160mila a circa 154mila. Questo non vuol dire che 6mila aziende siano fallite, alcune sono semplicemente diventate micro, scendendo sotto la soglia dei 2 milioni di fatturato.
Nel complesso il tessuto produttivo ha resistito, e a testimoniarlo vi è un indicatore molto sensibile in caso di crisi, ovvero la percentuale di mancati pagamenti delle imprese, cioè il rapporto tra il valore delle fatture non pagate e quello delle fatture in scadenza o già scadute.
Secondo i dati di Cerved nella seconda parte del 2019 era intorno al 30%, ma nel momento di maggiore incertezza, nel maggio del 2020, era salito fino al 44,7%. Da quel punto, però, ha seguito una parabola discendente, diminuendo alla fine di quell’anno al 33,5%, per poi calare fino a raggiungere nel giugno 2021 il 26,2%, un livello addirittura inferiore a quello pre-pandemico.
Così anche la quota dei debiti finanziari sul patrimonio netto è risalita, ma senza decollare, passando dal 66,9% al 72,8%.
A determinare questa resilienza delle Pmi italiane hanno senz’altro concorso le politiche anticicliche messe in atto dal Governo col supporto del sistema bancario, come il sostegno alla liquidità e le garanzie sui crediti. Tuttavia esse non avrebbero sortito tale l’effetto sperato senza il percorso di rafforzamento che le piccole e medie imprese stesse erano state capaci di intraprendere da sole.