Gli storici indicano la caduta dell’Impero Romano d'Occidente (476 d.C.) come periodo di inizio dell'Età Medievale. Le continue invasioni barbariche, dapprima pacifiche usurpazioni del potere da parte di legioni barbare, alla fine del VI secolo divennero violente e distruttive per tutto il territorio italico con la discesa dei Longobardi dalle terre germaniche. Tra le conseguenze, la deurbanizzazione, le migrazioni di massa, il crollo demografico, a cui si aggiunse una terribile pestilenza che ridusse la popolazione a poco più di cinque milioni di abitanti. L’Impero Romano d’Oriente con il suo Imperatore, invece, sopravvisse per tutta la durata del Medioevo.
Convinzione a lungo diffusa presso gli studiosi del periodo è stata che con la regressione dell'economia si fossero diradati tutti gli scambi commerciali con la moneta: invece, gli scambi con l'Oriente bizantino e, più tardi con le potenze musulmane emergenti nel Mediterraneo, continuarono anche se in tono minore, alimentando i traffici delle merci. Per un secolo circolarono in Europa le monete d'oro coniate dagli imperatori d'Oriente, poi le monete d’argento dei Musulmani, i dirham, e le monete che i re barbari avevano cominciato a emettere.
A queste si aggiunsero quelle provenienti dalla coniazione privata che signori (laici ed ecclesiastici) avevano iniziato a produrre a discapito del monopolio pubblico delle emissioni: apparve il penny in Inghilterra, il marco nella Gallia, senza alcuna verifica del contenuto metallico dichiarato.
Questa anarchia monetaria si prolungò fino alla fine del secolo VIII con l'arrivo di Carlo Magno, che con il progetto di restaurare l'impero d'Occidente, avviò la riforma carolingia della moneta.
Tra il 781 e il 795 Carlo Magno, proseguendo la riforma iniziata dal padre, il re Pipino il breve, ristabilì il monopolio del conio pubblico e introdusse il monometallismo con la moneta sovrana denominata denarius. Quest’ultima non era più basata sull'oro disponibile in quantità limitata ma sull’argento, metallo estraibile dalle miniere esistenti in Europa, soprattutto quelle francesi del Poitou, sulla costa Atlantica.
Il denarius diviene, quindi, l’unità monetaria carolingia.
Viene ripristinata l'iconografia del ritratto imperiale e sul rovescio delle monete, l’impronta di un tempio a 4 colonne sormontato da una croce, forse la riproduzione della basilica di San Pietro dove Carlo Magno aveva avuto l'investitura imperiale dal Papa Leone III.
Dal momento che non era prevista la coniazione di alcun multiplo del denaro, per facilitare scambi e transazioni, dall'uso quotidiano nacque una soluzione spontanea: siccome da una libbra si ottenevano alla zecca 240 denari, si iniziò a far equivalere 240 denari ad una “lira” (unità di conto).
Così, fu Carlo Magno a rilanciare il sistema della moneta-unità di conto, definitiva moneta “immaginaria”, che rimase in vita in Europa fino al Settecento.
La riforma carolingia contribuiva all’accentramento della monetazione nelle mani della Corona, che aveva facoltà di decidere per decreto il rapporto con la moneta effettivamente coniata in metallo e utilizzata nel commercio.
Tuttavia, qualcosa restava fuori dal controllo dello Stato, ossia il valore di mercato del materiale con cui era fatta la moneta: argento, rame o oro. La carenza di metalli preziosi rendeva limitata l’offerta di moneta.
Il nuovo impero diviso in tre regni era però indebolito dai poteri territoriali degli aristocratici che portarono al dissolvimento dell’esclusività del conio pubblico a favore delle autonomie monetarie, mentre la concorrenza delle monete circolanti nell'area mediterranea (il soldo d'oro Costantiniano e il dirham musulmano) portò alla svalutazione di un terzo la moneta carolingia.
Il panorama di questo periodo della storia monetaria medievale europea presenta tre aspetti importanti: l'affermarsi del vero commercio, esercitato da mercanti che partono con navi e chiatte dai porti del mondo occidentale esportando tronchi di legno e barre di ferro verso il ricco Oriente e l'Africa e importano al ritorno, superando mari infestati dalla pirateria, stoffe di seta e porpora e soprattutto oro, in monete o lingotti, di cui l'Occidente è affamato.
La potenza economica di Costantinopoli e dell'Oriente deriva soprattutto dall'intensità dei traffici con l’impero islamico che consente di mantenere la stabilità del cambio tra il soldo aureo e il dirham d'argento. L’Occidente, con la decomposizione dello Stato, vede affermarsi, soprattutto nelle campagne, il potere dei grandi proprietari terrieri che organizzano una forma economica legata alla curtis, cioè ai loro grandi possedimenti terrieri in cui lavorano i coloni e i servi. I coloni sono legati al signore da un contratto, il livellum, che prevede la rendita e le prestazioni dovute dal colono; i servi non hanno contratto e dipendono dalla disposizione dei padroni.
A loro volta, i signori sono soggetti al sovrano. Questi concede agli alleati più potenti parte delle sue terre (beneficio o feudo) in cambio di un giuramento di fedeltà (omagium) che li elegge suoi vassalli. Questo sistema feudale è, quindi, fondato su patti privati di fedeltà.
L’introduzione dell’ereditarietà del beneficio dà origine quindi allo Stato feudale, articolato in un sistema di sovrani autonomi che a loro volta nomineranno i vassalli, valvassori e valvassini a seconda del rango di appartenenza. In un tale sistema di dipendenze gerarchiche resta poco spazio allo scambio soprattutto monetario.
La vita nelle città vede mercati cittadini impoveriti dove non circolano merci preziose e grandi monete, ma i beni del piccolo consumo. Mercanti e artigiani non rivestono un ruolo significativo nella società.
Questo testo fa parte di una serie di articoli (qui si può leggere l'introduzione, la prima parte, la seconda parte, la terza parte, la quarta parte, la quinta parte e la sesta parte).