Certamente non è in cima alle preoccupazioni degli italiani, alle prese con un’inflazione che costringe a risparmiare anche sui beni primari, ma tra le varie rinunce che molti saranno costretti a fare vi sarà un viaggio negli USA.
Quello che per tanti è uno status symbol è ora più costoso non solo a causa del carovita, ma anche per un’inedita debolezza dell’euro verso il dollaro. Negli ultimi 20 anni non era mai accaduto che la divisa europea scendesse sotto la parità con quella americana, ovvero che per acquistare un euro bastasse meno di un dollaro.
Si deve andare agli esordi della moneta unica tra il 1999 e il 2002, per trovare un deprezzamento simile. Allora, molti fattori contribuirono al cambiamento delrapporto con il dollaro dal valore di 1,168 (dollari per un euro) il 1° gennaio 1999 fino a quello di 0,85 nell’autunno del 2000 e nella primavera del 2001. Tra i motivi : dubbi sulla stabilità economica e la coesione dell’eurozona; gli eventi bellici in Europa (all’epoca nella ex-Jugoslavia); crescita del prezzo del petrolio (espresso in dollari); forza dell'economia USA e il rialzo dei tassi da parte della Fed.
Successivamente si è assistito a un apprezzamento dell’euro a causa sia della riluttanza della BCE verso l’espansione monetaria sia della crisi economica americana e della successiva ridotta crescita, nonché della situazione di deficit fiscale e delle partite correnti che colpiva Washington.
La moneta unica ha raggiunto il massimo della sua forza nell’estate del 2008, quando nel momento di maggiore apprezzamento per acquistare un euro si pagava più di 1,57 dollari. Era il culmine della crisi dei subprime, e di lì a poche settimane sarebbe fallita Lehman Brothers.
Per tutto il successivo periodo di recessione, che poi ha colpito pesantemente anche l’Europa, la nostra divisa è rimasta comunque mediamente più forte della media rispetto a quella di Oltreoceano, soprattutto a causa del diverso approccio di politica monetaria. Mentre la Fed, infatti, aveva iniziato senza indugio a fare Quantitative Easing (una politica messa in atto dalle Banche centrali per iniettare liquidità nel sistema mediante l’acquisto di titoli di Stato o altre obbligazioni sul mercato), la BCE cominciò in modo sistematico solo nel 2015. Non è un caso che da quell’anno il cambio si sia mantenuto su livelli più bassi, mediamente tra 1 e 1,2, e le oscillazioni, incluse quelle durante la pandemia, siano state più limitate.
I rapporti con le altre monete, euro ai minimi anche con il franco svizzero
Oggi l’ulteriore riduzione del valore dell’euro rispetto al dollaro trova le sue ragioni nella maggiore esposizione dell’Eurozona alla crisi energetica e ai rischi di recessione: sono questi ultimi, tra l’altro, a impedire alla BCE di alzare i tassi per combattere l’inflazione con la stessa decisione con la quale lo sta facendo la Fed.
Certamente avere una moneta svalutata ha i suoi vantaggi: le nostre esportazioni sono più convenienti, possiamo attirare più turisti americani in Italia e in Europa grazie ai prezzi relativamente inferiori, ma i costi dell’energia che importiamo sono destinati ad aumentare ulteriormente, così come quelli dei semilavorati. L’economia europea, del resto, è fortemente interconnessa con quella mondiale, e a contare non è solo il cambio con il dollaro, ma anche il cambio con le altre divise.
Il rapporto tra euro e renminbi cinese, per esempio, si avvia anch’esso verso i minimi, sotto i 7 renminbi per un euro, valore mai toccato negli ultimi sette anni. Ancora più netto il calo del cambio con il franco svizzero. Anche in questo caso si è scesi sotto la parità: ci vuole, quindi, meno di un franco per acquistare un euro. Non era mai successo.
Al contrario, non si riscontrano trend simili nei confronti dello yen giapponese e della sterlina britannica. In entrambi i casi il cambio è piuttosto in linea con quello degli ultimi 10 anni.
Regno Unito e Giappone, del resto, vanno incontro a problemi analoghi a quelli europei: fiammata inflattiva e crisi energetica. Il deterioramento del rapporto di cambio con il dollaro e altre monete è allo stesso tempo una conseguenza di quest’ultima, che rappresenta quindi un fattore aggravante.