Lavoratori con contratto a termine, tendenzialmente giovani, impiegati nel commercio, ristorazione, turismo. Queste le principali vittime della crisi del 2020. Ma c'è un'altra categoria di persone che è rimasta impigliata nella recessione: le donne.
Gli ultimi dati dell’Istat lo dimostrano: tra gennaio 2020, l’ultimo mese senza Covid, e agosto 2021 il numero delle donne occupate è sceso di 228mila unità, un calo sostanzialmente analogo a quello che ha interessato i lavoratori di genere maschile, 226mila persone. Peccato che gli uomini con un impiego fossero in partenza 13 milioni e 479mila e le donne solo 9 milioni e 759mila. In proporzione, è evidente l’impatto maggiore della recessione su queste ultime.
Si tratta di un dato particolarmente negativo per due motivi:
Da un lato perché negli ultimi decenni l’Italia era riuscita a ridurre quel gap di genere che l’ha sempre caratterizzata in ambito lavorativo, con un incremento del tasso di occupazione femminile, che è passato dal 45,4% del 2004 al 50,1% del 2019, mentre quello maschile nello stesso lasso di tempo è sceso dal 70,4% al 68%. La differenza tra le due grandezze è passata, quindi, dal 25% del 2004 al 17,9% del 2019. In effetti, la crisi seguita al crack di Lehman Brothers e quella dell’euro avevano colpito di più gli uomini, avendo impattato in modo pesante su settori in cui era (ed è) il genere maschile a costituire la maggioranza dei lavoratori. Prima della pandemia, in altre parole, le donne stavano recuperando terreno. Ma c'è una seconda ragione che rende la crisi del lavoro femminile così grave: è aumentata la differenza del tasso di occupazione italiano rispetto a quello medio europeo: fino al 2008 è stato intorno al 10%, oggi è al 13,5%. La distanza con la Ue, quindi, è più ampia. Stiamo peggiorando, tanto è vero che restiamo il Paese con il tasso di occupazione femminile peggiore del continente dopo solo la Grecia.
Ma le donne eccellono negli studi e nella sanità e nella magistratura sono maggioranza
I segnali positivi, tuttavia, non mancano. Quelli più importanti vengono dall’ambito dell’istruzione. Non solo le donne costituiscono la maggioranza dei laureati, ma soprattutto la quota di quante hanno completato gli studi universitari è cresciuta molto più velocemente che tra gli uomini, in particolare se parliamo di giovani. Tra i 30 e i 34 anni è passata dal 12,5% al 34,3% in 20 anni, tra il 2000 e il 2020; mentre nel caso degli italiani di sesso maschile è cresciuta dal 10,8% al 21,4%.
Non solo, vi sono ambiti professionali di assoluta rilevanza che ormai sono a netta prevalenza femminile. Per esempio la sanità. Dove è donna il 54% dei medici sotto i 65 anni, così come il 57% di quelli sotto i 60 anni e il 60% degli under 50.
Nella magistratura, su 9.787 giudici 5.308 (il 54,2%) è di genere femminile secondo i dati del Csm aggiornati al 2020. Un dato costante per tutti gli ultimi 20 anni e che non conosce differenze territoriali: le donne sono in maggioranza sia al Nord che nel Sud. Quello che manca, nella Giustizia, così come nella Sanità, o anche nel mondo universitario, è una parità di genere nei ruoli direttivi: ancora molto maschili.
Anche per questo motivo le pari opportunità rappresentano una delle dimensioni trasversali del Pnrr, e hanno un ruolo di primo piano in ognuna delle missioni del Piano, a cominciare da quella su Inclusione e Coesione. L’obiettivo è incrementare non solo l’occupazione, ma anche le competenze e le possibilità di carriera delle donne, rendendole non solo compatibili ma anzi incentivanti verso la maternità e la cura dei figli.
Parità di genere, molto rimane da fare, ma i progressi sono visibili anche in Italia
06-10-2021