Semiconduttori, dalla crisi l'esigenza di una autonomia produttiva europea

Semiconduttori, dalla crisi l'esigenza di una autonomia produttiva europea
23-09-2021

Quello automobilistico è uno dei settori centrali dell’economia europea e, allo stesso tempo, uno di quelli che nel prossimo futuro attraverseranno i cambiamenti più profondi, a causa della sostituzione delle auto tradizionali con quelle elettriche e/o ibride. 

Anche per questo motivo forte è la preoccupazione di governi e grandi imprese per la carenza dei semiconduttori che sono e saranno sempre di più tra i componenti base dell'automotive. Basti pensare che, come ha sottolineato il commissario europeo al mercato interno, Thierry Breton, determineranno tra non molto il 35% del prezzo dei veicoli intelligenti

Già dallo scorso inverno gran parte delle case automobilistiche, da Stellantis a Volkswagen, a causa della scarsità di microchip, hanno dovuto rallentare la produzione e alcune si sono trovate costrette a chiudere intere catene di montaggio.

Ma la mancanza di microchip, composti da materiali semiconduttori, ha naturalmente colpito anche molti altri settori hi tech, come quello degli smartphone, delle console di videogiochi, dei computer, delle stampanti.
 
Ed è proprio il massiccio uso quotidiano di questi device alla base della crisi che stiamo attraversando. In occasione della pandemia le aziende produttrici di microcircuiti avevano previsto un calo della domanda mondiale, dovuta alle chiusure imposte dai governi, e invece questa è aumentata, spinta proprio dallo smart working e dal maggior tempo trascorso in casa.  Lo squilibrio tra domanda e offerta ha portato, quindi, oltre alla carenza dei prodotti anche a un aumento dei prezzi, come sempre succede in questi casi.
 
La responsabilità, però, non è tutta del Covid. L’aspetto rilevante è che anche fattori geo-politici in prospettiva si stanno rivelando anche più importanti, perché strutturali.

Il peso della guerra commerciale Usa-Cina
Attualmente è in Asia che si produce la grandissima maggioranza dei microchip. Il 60% a Taiwan, il 19% in Corea del Sud e il 6 % in Cina. Questo grazie agli ingentissimi investimenti pubblici che negli ultimi decenni che avevano l'obiettivo (raggiunto) di raggiungere la leadership mondiale. 

Di fronte a questa offensiva industriale l'Europa si è fatta trovare impreparata al punto che la sua quota di mercato mondiale nel settore dei microchip è calata dal 22% di fine anni ’90 al 9% odierno. Il 9% di una torta molto più grande, certamente, ma a crescere enormemente è stata anche la richiesta di tali componenti, che non viene soddisfatta dalla produzione europea. 

Questi squilibri geografici non sono secondari: il fatto che la produzione sia concentrata nel continente asiatico rende decisivi i porti cinesi e quelli degli altri Paesi vicini. Negli ultimi mesi, sempre per motivi legati alla pandemia e alla ripresa delle attività, molte fabbriche hanno lavorato a ritmi superiori alle loro capacità per tentare, senza tuttavia riuscirci, di soddisfare la domanda. Questo ha provocato congestionamenti logistici che hanno ritardato le spedizioni dei mirochip.

Come se non bastasse ha avuto un peso anche la guerra commerciale tra Usa e Cina: il bando alle esportazioni di tecnologia americana (come i software) utile a Pechino per la produzione anche di semiconduttori ha prodotto un accaparramento preventivo di materiale da parte delle aziende cinesi (come Huawei) e, allo stesso tempo, danni economici a molti dei loro fornitori. 

La lotta per la supremazia tra Stati Uniti e Cina e la dipendenza dai porti dell’Asia non sono elementi  destinati a essere risolti a breve ed è per questo che la Ue punta a diventare il più possibile autonoma: l'obiettivo è risalire entro il 2030 a una quota di mercato mondiale del 20%, più del doppio di quella attuale. Per riuscirci l’Unione Europea dovrà cambiare paradigma rispetto agli ultimi 30 anni: sarà necessario investire denaro pubblico - Intel ha già chiesto 8 miliardi di euro per installare uno stabilimento in Europa -, realizzare una politica industriale con un forte intervento statale e, in un certo senso, rinnegare, almeno parzialmente, quella globalizzazione che ha sempre sostenuto.